2022L’ora innocente

L’ora innocente

Giovedì 7 aprile, dalle ore 18.00, Société Interludio è lieto di presentare L’ora innocente.
Con lo scopo di indagare le varie direzioni del medium e dello sguardo fotografico, sono stati invitati a dialogare negli spazi di Piazza Vittorio gli artisti Giovanna Repetto (Padova, 1990), Agathe Rosa (Annecy, 1987) e Marco Schiavone (Torino, 1990).

L’ora innocente, come scrive il critico Vincenzo Estremo nel suo testo che accompagna la mostra, si è sviluppata intorno a un movimento di liberazione dell’immagine meccanica. Un’ora innocente in cui la relazione tra tecnica-efficiente cede il posto alla libertà dell’immagine di poter finalmente essere quello che vuole.

Tutto ciò è particolarmente evidente nei lavori di Agathe Rosa, in cui gli elementi minimi che rendono possibile l’immagine si scontrano con una forza altrettanto inevitabile come quella della soggettività dei processi. All’armonia e alla presenza si sostituiscono la scomparsa, il caos, la vacuità. Un’intera gamma di incertezze che l’artista segue e asseconda finendo in uno spazio in cui è il concepibile a definire l’immagine e non viceversa.

Lo stesso spazio del possibile è quello che c’è tra gli specchi e la realtà, uno spessore che corrisponde alla consistenza del vetro e che divide la parte riflettente dal mondo pronto per essere riflesso. In quello spazio c’è una condizione latente, qualcosa che resta in attesa. L’azione di Giovanna Repetto è quella di oscurare non gli specchi ma la superfice esterna di quello spazio. Repetto priva i suoi apparat di alcune parti fondamentali – gli elementi che fanno dello specchio uno strumento del vedere – produce a sua volta un’ora innocente, un momento in cui l’immagine nasce e resta segreta.

Nel caso di Marco Schiavone invece, la soddisfazione completa dell’appetito per l’illusione mediante la riproduzione fotografica ci mette difronte al dilemma della relazione tra l’immagine e il suo referente. Paradossalmente l’immagine di Schiavone che nella sua pratica costruisce, riproduce e smembra un apparato oggettuale, finisce per evocare il contorno fisico della cosa rappresentata lasciando un’“area” che è la nostra mente a produrre: è l’oggetto assente a definire la percezione dello spazio rendendo la rappresentazione inutile nella sua funzione di copia.

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